Italo Calvino

Il cappuccio da sci celeste-cielo

In un vecchio libro regalatomi qualche tempo fa, tra le pagine ingiallite ho trovato uno strano racconto attribuito a Italo Calvino.

Tra le righe di questa breve storia poi mi sono perso cercando di trovare quei dettagli che mi sembravano avvicinare quelle parole a quelle altre dello scrittore che ho sempre conosciuto.

Si tratta infatti di un testo di cui non ho mai sentito parlare. Nonostante le ricerche, non sono riuscito a rintracciare alcuna informazione che lo riguardasse. Ho deciso di trascriverlo, sperando che possa interessare a qualcuno. Si tratta comunque di una piccola rarità.

Racconti Italiani 1966
Selezione dal Reader’s Digest


Allo skilift c’era la coda.
La comitiva dei ragazzi venuti col pullman s’era messa in fila, affiancandosi a sci paralleli, e, a ogni passo avanti che la coda faceva — una lunga coda che invece d’andar dritta come pure avrebbe potuto, seguiva una casuale linea a zig-zag, un po’ in salita un po’ in discesa — pesticciando in su oppure scivolando giù di fianco a seconda del punto in cui si trovavano, e subito ripuntellandosi ai bastoncini, spesso andando a gravare del proprio peso i vicini di sotto, o cercando di liberare racchette di bastoncini da sotto a sci dei vicini di sopra, inciampandosi negli sci andati a mettersi per storto, chinandosi ad aggiustare gli attacchi e arrestando cosi tutta la fila, togliendosi le giacche a vento o i maglioni o rimettendoseli a seconda se il sole appariva o spariva, ricacciando le filze di capelli sotto il copriorecchi di lana o gli sbuffi delle camicie a scacchi dentro le cinture, cercando i fazzoletti nelle tasche e soffiandosi i nasi rossi e gelati, e per tutte queste operazioni togliendosi e rimettendosi i guantoni che talvolta cadevano nella neve e bisognava con la punta dei bastoncini ripescarli: quest’agitazione di piccoli gesti scomposti percorreva la fila e diventava frenetica al suo culmine, là dove bisognava aprire le cerniere-lampo di tutte le tasche per cercare dove s’erano cacciati i soldi per il biglietto oppure il tesserino e porgerlo all’uomo dello skilift che ci faceva i buchi, e poi rimettersi la roba nelle tasche, e i guantoni, e unire i bastoncini uno con la punta infilata nella racchetta dell’altro, tutto questo superando la piccola salita della piazzola dove bisognava essere pronti a mettere a posto l’ancora dello skilift sotto il sedere e a lasciarsi trascinare su di strappo.

Il ragazzo con gli occhiali verdi era a metà della coda, intirizzito, con a fianco un ragazzo grasso che spingeva. E mentre loro erano li, passò la ragazza col cappuccio celeste-cielo. Non si mise in coda; andava avanti, in su, per il sentiero. E muoveva in salita gli sci leggera come camminasse.

«Cosa fa quella? Vuoi fare la salita con le sue gambe?» si domandò il ragazzo grasso che spingeva.
«Ha le pelli di foca» disse il ragazzo con gli occhiali verdi.
«Però, voglio vederla su dove è più ripido» disse il grasso.
«Ha poco da far la furba, sta’ sicuro!»

La ragazza andava con un passo senza sforzo, con un movimento regolare dei suoi alti ginocchi — era di gamba molto lunga, nei pantaloni tirati, tesi alla caviglia — a tempo con l’alzare ed abbassare dei lucenti bastoncini. Il sole in quell’aria gelata e bianca si mostrava come un esatto disegno giallo, con tutti i suoi raggi; nelle distese di neve senza un’ombra, solamente dal suo brillio si distinguevano gobbe e anfratti e il battuto delle piste. Nella giacca a vento celeste-cielo il viso della ragazza bionda era d’un rosa che diventava rosso sulle guance, contro la bianca felpa dell’interno del cappuccio. Rideva verso il sole, appena socchiudendo gli occhi. Andava su leggera, sulle pelli di foca. I ragazzi della comitiva del pullman, con le orecchie gelate, l’arsura alle labbra, i nasi che tiravano su moccio, non sapevano staccare gli occhi di dosso a lei, e si facevano spingere nella coda; finché lei non superò un ciglio e sparì.

Man mano che toccava il loro turno, quelli della comitiva del pullman, con parecchi inciampi iniziali e false partenze, prendevano a salire a due a due, trainati per la pista quasi verticale. Al ragazzo con gli occhiali verdi toccò lo stesso skilift del grasso che spingeva. Ed ecco, a metà salita, la rividero.
«E come ha fatto ad arrivare fin quassù, questa?»

In quel punto il percorso dello skilift fiancheggiava una specie di valletta, dove un sentiero battuto s’inoltrava tra dune alte di neve e radi abeti frangiati di ricami di ghiaccio. La ragazza celeste-cielo veniva avanti con quel suo passo esatto e quella spinta avanti delle mani guantate, strette all’impugnatura dei bastoncini, senza affanno.
«Uuuh!» gridavano loro dello skilift salendo a gambe dure. «Quasi arriva prima lei di noialtri!» Lei aveva sulle labbra il suo sorriso gentile, e il ragazzo dagli occhiali verdi restò confuso, e non osò continuare con i lazzi, perché lei abbassava le ciglia e lui si sentì come cancellato.

Appena arrivato in cima, prese subito a buttarsi per la discesa, dietro il ragazzo grasso, tutti e due pesanti come sacchi di patate. Ma quello che lui cercava, arrabattandosi per la pista, era di riavvistare la giacca a vento celeste-cielo, e si slanciò giù dritto, per farsi vedere coraggioso e nello stesso tempo mascherare la sua malagrazia nel prendere le curve. «Pista! Pista!» gridava inutilmente perché anche il ragazzo grasso e tutti loro della comitiva stavano scendendo a rotta di collo gridando: «Pista! Pista!» e, uno a uno, cadendo di sedere o di petto, e lui solo ancora tagliava l’aria piegato in due sugli sci, finché la vide. La ragazza continuava a salire, fuori dalla pista, nella neve fresca. Il ragazzo con gli occhiali verdi la sfiorò passando come una freccia, s’inchiodò nella neve fresca, e ci scomparve dentro a faccia avanti.

Ma al fondo della discesa, a fiato mozzo, infarinato di neve dalla testa ai piedi, dai, era di nuovo là con tutti gli altri in coda per lo skilift, e poi di nuovo, dai, su in cima. Stavolta la incontrò che stava scendendo anche lei. Come andava? Per loro, campione era chi andava giù dritto come un pazzo. «Beh, non è poi quel gran campione, la bionda» ebbe fretta di dire il grasso, con sollievo. La ragazza celeste-cielo se ne veniva giù bel bello, prendendo i suoi zig-zag tutti precisi, ossia, fino all’ultimo non si capiva se volesse svoltare o cosa fare e tutt’a un tratto la vedevano che scendeva in direzione opposta a prima. Veniva giù prendendosela calma, si sarebbe detto, fermandosi ogni tanto, dritta sulle lunghe gambe, a studiare il percorso; ma intanto, quelli del pullman non riuscivano a tenerle dietro. Finché anche il grasso ammise: «Altro che storie! Va da dio!»

II perché non l’avrebbero saputo spiegare, ma era questo che li teneva a bocca aperta: tutti i movimenti le venivano i più semplici e i più adatti alla sua persona, senza mai traboccare d’un centimetro, senza l’ombra di turbamento o di sforzo, o di puntiglio a fare una cosa a tutti i costi, ma facendola cosi, naturalmente; e prendendo, a seconda di com’era lo stato della pista, anche certe movenze un po’ incerte, come chi cammina in punta di piedi, che era tutta una sua maniera per superare le difficoltà senza far capire se le prendeva sì o no sul serio; insomma non con l’aria sicura di chi fa le cose come vanno fatte, ma con una punta di ritrosia, come stesse provando a fare il verso a qualcuno che scia bene e le capitasse sempre di sciare meglio: questo era il modo in cui la ragazza celeste-cielo andava sugli sci.

Allora, uno dopo l’altro, giù, goffi, pesanti, strappando i “cristiania”, forzando in “slalom” le “curve spazzaneve”, quelli del pullman le si buttavano dietro, e cercavano di seguirla, di superarla, gridando, canzonandosi, ma tutto quel che facevano era un disordinato diroccare a valle, con scomposti movimenti delle spalle, le braccia coi bastoni tenute avanti, gli sci che s’incrociavano, gli attacchi che saltavano via dagli scarponi, e dappertutto dove loro passavano la neve s’apriva in buche di colpi di sedere, di fiancate, di tuffi a capofitto.

Da ogni caduta, appena alzavano la testa, con lo sguardo cercavano lei. Attraversando la loro valanga, la ragazza celeste-cielo se ne veniva coi suoi movimenti leggeri, e le pieghe dritte dei pantaloni tesi appena s’angolavano in un molleggio cadenzato, e il suo sorriso non si capiva se fosse di partecipazione alle prodezze e ai contrattempi dei compagni di discesa o invece il segno che non li vedeva neppure.

Il sole intanto, invece di prendere più forza avvicinandosi al mezzogiorno, s’intirizziva tutto finché non sparì, come bevuto da una cartasuga. L’aria fu piena di leggeri cristalli senza colore che volavano obliqui. Era il nevischio: non ci si vedeva di qui a li. I ragazzi sciavano alla cieca, gridando e chiamandosi, e tutti i momenti uscivano di pista e, dai, cadevano. L’aria e la neve adesso erano tutto lo stesso colore, bianco opaco, a maguzzandoci dentro gli occhi, per poco che si facesse meno denso, ecco scorgevano l’ombra celeste-cielo come sospesa là in mezzo, che volava in qua e in là come su una corda di violino.

Il nevischio aveva disperso la coda allo skilift. Il ragazzo con gli occhiali verdi si trovò senza accorgersene vicino al casotto della stazione di partenza. I compagni non si vedevano. La ragazza col cappuccio celeste-cielo era già li. Aspettava l’ancora, che adesso stava svoltando alla ruota. «Presto!» gridò l’uomo dello skilift verso di lui, afferrando a volo l’ancora e trattenendola perché la ragazza non partisse sola. Arrancando a spina di pesce, riuscì ad affiancarsi alla ragazza appena in tempo per partire con lei, quasi facendola cadere come si abbrancò al legno. Lei tenne l’equilibrio anche per lui, finché non gli riuscì di mettersi su bene, farfugliando recriminazioni, cui rispose una sommessa risata di lei come un glu-glu di gallina faraona, soffocata dalla giacca a vento tirata su fin sopra la bocca.

Ora il cappuccio celeste-cielo, come un elmo d’armatura, le lasciava scoperto solo il naso, che aveva un po’ aquilino, gli occhi, qualche ricciolo sulla fronte, e i pomelli delle gote. Cosi la vedeva, di profilo, il ragazzo dagli occhiali verdi, e non sapeva se essere felice a trovarsi con lei sulla stessa àncora di skilift, o vergognarsi d’esser li tutto imbrattato di neve, coi capelli sulle tempie, la camicia che gli sbuffava fuori tra il magliore e la cintura, e che lui per non sbilanciarsi muovendo le braccia non osava ricacciare a posto, e un po’ sbirciava lei un po’ stava attento alla posizione degli sci che non uscissero fuori dal battuto nei momenti di trazione troppo lenta o troppo tesa, ed era sempre lei a salvare l’equilibrio, ridendo il suo glu-glu di faraona, mentre lui non sapeva cosa dire.

Di nevicare aveva smesso. Ora anche l’aria nebbiosa si squarciò e nello squarcio apparve un cielo finalmente azzurro e il sole splendente e le montagne nitide ghiacciate una per una, solo qua e là piumate sulla cresta dai soffici brandelli della nuvola di neve. La ragazza incappucciata riaffacciò la bocca e il mento.
«Ritorna bello» fece, «io lo dicevo.»
«Si» disse il ragazzo dagli occhiali verdi «bello. Poi la neve è buona.»
«Un po’ molle.»
«Oh, già.»
«Ma a me cosi piace» lei disse, «e anche la discesa nella nebbia è mica male.»
«Finché si sa la pista…» disse lui.
«No, cosi» disse lei, «indovinandola.»
«Io l’ho già fatta tre volte» disse il ragazzo.
«Bravo. Io una sola, ma sono andata su senza skilift.»
«L’ho vista. Aveva messo le pelli di foca.»
«Si. Ora che c’è il sole vado fin sul colle.»
«Sul colle dove?»
«Più in su di dove arriva lo skilift. Fin sulla cresta.»
«E cosa c’è lassù?»
«Si vede il ghiacciaio che sembra di toccarlo. Poi le lepri bianche.»
«Le cosa?»
«Le lepri. A quest’altezza le lepri d’inverno mettono il pelo bianco. Anche le pernici.»
«Ci sono li?»
«Pernici bianche. Con le penne tutte bianchissime. D’estate invece hanno le penne caffelatte. Lei di dov’è?»
«Italiano.»
«Io sono svizzera.»

Erano arrivati. Al termine s’erano staccati dallo skilift, lui malamente, lei accompagnando con la mano l’ancora per tutto il giro. Lei si tolse gli sci, li mise ritti, dalla borsetta che portava alla cintola tirò fuori le pelli di foca e le legò sotto gli sci. Lui la stava a guardare, strofinandosi le dita gelate nei guantoni. Poi, quando lei prese a salire, le andò dietro.
La salita dallo skilift alla cima del colle era dura.
Il ragazzo con gli occhiali verdi ci dava dentro un po’ a spina di pesce, un po’ a gradini, un po’ arrancando avanti e riscivolando indietro, tenendosi ai bastoni come uno sciancato alle stampelle. E lei era già lassù che lui ormai non la vedeva.

Arrivò al colle sudato, a lingua fuori, mezzo accecato dallo sfavillio che si irradiava tutt’intorno. Là cominciava il mondo del ghiaccio. La ragazza bionda s’era tolta la giacca a vento celeste-cielo e la portava annodata alla vita. Anche lei s’era messa un paio di occhialoni. «Là! Ha visto; Ha visto?»
«Cosa c’è?» faceva lui stordito. Era saltata una lepre bianca? Una pernice?
«Ora non c’è più» lei disse.

Giù sopra la valle svolazzavano i soliti uccelli neri gracchianti dei duemila metri. Era venuto fuori un limpidissimo mezzogiorno e da lassù lo sguardo abbracciava le piste, i campi affollati di sciatori, di bambini con le slitte, la stazione dello skilift con la coda che s’era subito riformata, l’albergo, i pullman fermi.

La ragazza s’era già slanciata per la discesa e andava e andava con i suoi tranquilli zig-zag, ora era già dove le piste erano più battute dagli sciatori, ma in mezzo a tutto lo sfrecciare di sagome confuse e intercambiabili la sua figura appena disegnata come un’oscillante parentesi non si perdeva, restava l’unica che si potesse seguire e distinguere, sottratta al caso e al disordine.

L’aria era così nitida che il ragazzo dagli occhiali verdi indovinava sulla neve il reticolo fitto delle orme di sci, dritte ed oblique, delle strisciate, delle gobbe, delle buche, delle pestate di racchetta, e gli pareva che là nell’informe pasticcio della vita fosse nascosta la linea segreta, l’armonia, solamente rintracciabile alla ragazza celeste-cielo, e questo fosse il miracolo di lei, di scegliere a ogni istante nel caos dei mille movimenti possibili quello e quello solo che era giusto e limpido e lieve e necessario, quel gesto e quello solo, tra mille gesti perduti, che contasse.


Testo di Italo Calvino

Indice

  1. Biografia
  2. Il cappuccio da sci celeste-cielo
  3. Berenice, città nascosta
  4. Calvino poeta
  5. L'impero di Kublai
  6. Los ovillos de Italo Calvino